Quando l’ufficio si divide in clan..e come se ne esce con un sorriso
- Nicola Arnese
- 7 giorni fa
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Io, a certe dinamiche da ufficio, ci sono sempre arrivato tardi. Sarà che tendo a fidarmi, sarà che a me piace parlare con tutti, ma queste cose delle “fazioni” – che mica succedono solo nelle serie TV – me ne accorgevo solo quando ormai erano belle piantate.
In un ufficio che frequentavo tempo fa, ad esempio, c’era una collega – la chiameremo Laura, che poi è pure il suo vero nome, ma tanto di Laura ce ne sono tante. Un giorno mi dice:
“Qui se non ti schieri, sparisci.”
Io ho pensato che stesse esagerando, poi ho capito che aveva proprio ragione.
Lì dentro non c’era un team, c’era il Medioevo. Due clan: i veterani, quelli con anni di anzianità e l’ironia un po’ acida; e i giovani rampanti, tutti entusiasmo e battute in inglese. In mezzo, gente come Laura, che non voleva fare il tifo per nessuno, ma solo lavorare in pace.
Ora, io capisco tutto. Il bisogno di sentirsi parte, il desiderio di avere qualcuno che “sta dalla tua”, la voglia di ridere con chi la pensa come te. È umano. Ma quando comincia il “noi contro di loro”, ciao serenità. Si lavora con lo specchietto retrovisore, sempre a guardare chi dice cosa e da quale scrivania arriva.
E la cosa curiosa è che, in tutto questo, il capo – una brava persona, eh – sembrava il direttore di un albergo durante una lite tra clienti: “Non prendiamo posizione, l’importante è che non facciano troppo rumore.”
E invece no. Perché anche il silenzio, in certi casi, fa rumore. Anzi, è il più assordante.
Laura, che era sveglia, a un certo punto si è stancata. Ha detto basta con le diplomazie. Ha iniziato a fare quello che nessuno faceva più: parlare con chi le stava simpatico, anche se “non era del suo gruppo”; proporre idee senza fare sponda con nessuno; prendere un caffè con una collega di quelle dimenticate, ma con un cuore grande così.
E sai la cosa bella? Che nessuno l’ha cacciata. Anzi, piano piano, altri hanno cominciato a fare lo stesso. Come se qualcuno avesse aperto la finestra in una stanza un po’ viziata.
Io penso che ogni ufficio sia come un condominio: ci puoi abitare in pace, se impari a salutare tutti e a non sbattere la porta. Ma se cominci con i “quelli del terzo sono rumorosi”, “quelli del quarto sono snob”, allora non si vive più.
E il leader? Ah, lui o lei ha un ruolo fondamentale. Non deve fare l’arbitro, ma nemmeno il passante. Un buon capo è quello che vede il clima, non solo le scadenze. Che favorisce chi costruisce ponti, non chi scava trincee.
Le alleanze sane, quelle vere, si riconoscono subito. Non servono per sentirsi forti, ma per stare bene. Non dividono, uniscono. E non hanno bisogno di complicità, ma di fiducia.
Ecco, io credo che ognuno di noi possa fare la sua parte. Basta poco. Un sorriso fuori programma. Una pausa caffè con qualcuno che non è “del tuo giro”. Un gesto gentile che non serve a nulla, se non a ricordarci che, prima dei ruoli, siamo persone.
E poi, diciamolo: l’ufficio è già complicato di suo. Se ci mettiamo anche le faide interne, finisce che lavorare diventa una guerra. E a noi, in fondo, interessa più la pace.
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